UDE‘ IKE
 
ARTISTA OPERE MOSTRE IN ASTA
 

IKE‘ UDE‘, 1964, Lagos, Nigeria. The artist lives and works in New York, USA. Inaugurazione della mostra: venerdì 28 settembre 2001 dalle ore 18.30 In anteprima per l‘Italia, MC Magma propone la personale di IKE‘ UDE‘. L‘artista, nato in Nigeria, vive e lavora a New York. Dalle sue provocatorie serie di “Cover Girl”, autoritratti come protagonista delle copertine di riviste famose come “Vogue”, “i-D”, “The Face”, alle sue scritte sulla sessualità e sull‘identità, il lavoro di Ikè Udè esplora un mondo di dualità: africano/postnazionalista, fotografo/artista-performer, artista/spettatore, uomo/donna, convenzionale/marginale e ancora seduzione/narcisismo, arte/moda. Come nigeriano a New York, si collega al mondo della moda e delle celebrità, restituendo agli aspetti politici della performance e della rappresentazione una nuova vitalità. Egli fonde attraverso una modalità artistica molto personale la teatralizzazione di sé al molteplice di altre personalità. Come Andy Warhol, Ikè Udè gioca con le ambiguità del mercato e del mondo dell‘arte, com’è particolarmente visibile nella sua nota rivista d‘arte, cultura e moda, aRUDE. Artista concettuale ed esteta raffinato, Ikè Udè conosce a fondo due mondi e si sposta di continuo nel resto del globo sia nella vita che nel lavoro. Ikè Udé è il tipico cosmopolita la cui esistenza si eleva tuttavia al di sopra della città e delle sue finzioni e angosce sublimate. Rivelatosi sette anni fa con l‘elaborata installazione "Cover Girl" all‘Exit Art di New York, Udé manipola le immagini iconiche, i personaggi e i fatti di dominio pubblico, minandoli spesso alla base, allo scopo di mostrarne la doppiezza e rivelare la contorta immaginazione popolare che li crea o li mantiene in vita. Dopo gli inizi come pittore astratto alla fine degli anni ‘80 e nei primi anni ‘90, Udé ha spostato la propria attenzione sui temi della rappresentazione e della percezione nella cultura popolare, scegliendo come proprio strumento i media e tutto ciò che costituisce il loro corollario. Da allora Udé utilizza la fotografia, l‘immagine digitale, l‘installazione e la performance avvalendosene in modo estremamente personale per investigare le opinioni diffuse e le apparenze sociali. Molto del lavoro di Udé è incentrato sugli abiti e sul vestirsi, sul coprirsi quale tecnica di dissimulazione, sull‘instabile consistenza della verità del vivere. Le copertine di riviste createsi spontaneamente, le immagini fotografiche e le scene teatrali lasciano fratture sulla facciata del bel garbo. La studiosa di moda Valerie Steele definisce Iké Udé un “arbitro di stile”, dando una definizione dell‘artista quanto mai appropriata giacché esiste una differenza spesso dimenticata tra moda e stile: mentre la moda denota l‘intrinseco impoverimento delle tendenze, lo stile si richiama alla raffinatezza del gusto. Udé è una delle poche persone, certamente uno dei pochissimi artisti dopo Salvador Dalí, che oggi comprendono realmente questa sottile distinzione. Così come rende democratiche le illusioni di benessere, la new economy maschera il confine tra l‘aristocrazia e la strada, inducendo molti a presumere che la moda, e cioè l‘abbigliamento eccessivo ma popolare, possa rappresentare una panacea per il degrado collettivo. Il desiderio di nobilitare il proprio io, di oltrepassare le barriere della demarcazione e della "appartenenza" sociale, di elevarsi, viene a sua volta utilizzato dall‘industria culturale a scapito del gusto e di un sentimento reale di raffinatezza sociale, sì che infine altro non resta che manierismo. Nella nuova società del capitale trionfante, l‘acquiescenza e la conformità senza colore vengono mascherate con i costosi abiti degli stilisti. Diveniamo addirittura meno di ciò che indossiamo. E‘ questo uno dei molteplici messaggi comunicati dall‘attuale lavoro di Udé, vale a dire che occorre considerare la moda per quello che è: un sistema di maschere e trasformazioni che risulta comunque inefficace nel dissolvere l’involucro di degrado della nuova società. Un altro messaggio suggerisce invece, quale alternativa alla vita condotta all‘ombra di un‘esteriorità rubata, definita da Udé “splendida futilità”, di prestare attenzione all‘ammonimento di Oscar Wilde, secondo il quale “il primo compito della vita è quello di essere il più artificiale possibile”.

 
 
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